Sono un ragazzo fortunato, cantava Jovanotti in tenera età. Un titolo che mi è tornato in mente mentre immaginavo il modo migliore per iniziare questo articolo. Magari non ottimo, ma certamente efficace: sì, perché in fin dei conti mi ritengo tale. Per una serie di ragioni, tra le quali anche quella lavorativa. Ho la fortuna di fare cose belle, e soprattutto di incontrare e parlare con un sacco di persone belle.
Un esempio? Gli incontri informali a cui sto partecipando in queste settimane. Per rispetto dei colleghi, non faccio nomi: ma senza ombra di dubbio, nei pochi metri quadrati della stanza dell’incontro e tra gli spritz che alleggeriscono le chiacchierate periodiche, partecipa insieme a me una bella fetta di Gotha dell’advertising e del marketing italiano – e non solo.
Il tema? Facile, solo nel titolo: il futuro dei social.
Proprio questi incontri creano un’occasione interessante per chiarirmi le idee che trovi in questo primo post (ma non ne escludo altri 🙂 ), che fanno tesoro anche di alcuni pensieri dei colleghi.
Cosa verrà dopo i social?
Futuro dei social. Chi lo avrebbe detto? Nati solo pochi anni fa, ci troviamo già a pensare ai loro sostituti. Le parole chiave si sprecano: content, intelligenze artificiali, creatività umana, e così via.
La mia opinione è un po’ diversa, e lavora su prospettive più sociali e psicologiche rispetto alla tecnologia o all’innovazione per se.
E allora? Allora, dopo i social non ci sarà più nulla. E ci sarà tutto.
Dopo i social, non ci sarà più nulla.
Ricordate il Millennium Bug? Per i clienti e le aziende, i social hanno rappresentato l’equivalente del Millennium Bug (nel caso si fosse avverato): nulla è stato più come prima.
(ex CEO di una grande Agenzia di comunicazione digitale italiana)
I social sono stati una totale rivoluzione. Scomodo testi ormai sacri come il Cluetrain Manifesto o gli articoli “What is Web 2.0?” di Tim O’Reilly (2005) e “Content is King” di Bill Gates (1996): contenuti che spiegano chiaramente le ragioni di tale rivoluzione.
E anche per questo, dopo i social non potranno esserci altri social che aggiungono “semplice” valore incrementale all’esistente. I fallimenti di Google Plus, di Tumblr, di Pinterest e di altre piattaforme digitali insegnano: di innovazione incrementale, almeno per quanto riguarda social media e social network, non si vive più.
Al contrario, solo una vera, propria e profonda rivoluzione darà eventualmente il via alla nuova epoca dei social. Si stabiliranno piattaforme e soluzioni che non c’entrano nulla con quanto esiste già, capaci di abilitare scenari completamente nuovi. You don’t know, what you don’t know: per la maggior parte delle persone, oggi, è impossibile capire cosa manca nella loro vita (digitale). Quello che esiste già, ai nostri occhi e per i limiti della nostra percezione, rappresenta tutto ciò di cui abbiamo digitalmente bisogno. Spesso, come mostrano i dati di decrescita nell’utilizzo di alcune piattaforme (come Facebook e Twitter), anche molto di più.
Dopo i social, ci sarà tutto.
Indipendentemente dal fatto che ci sarà o meno nuova vita dopo i social rispetto a come attualmente li conosciamo e viviamo, credo che dobbiamo essere consapevoli di qualcosa di importante: gli stessi social, ormai, sono ovunque. E non parlo della loro diffusione statistica, quanto piuttosto di quello che sono riusciti a cambiare nella nostra routine, permeando le logiche del quotidiano. Tanto, tantissimo.
Riporto sei ragionamenti su cui sto mettendo la testa.
- Un amico professore universitario all’Università di Parma mi ha fatto notare la progressiva trasformazione delle famiglie in veri e propri social network: non più matrimoni e divorzi, ma uno scenario nuovo a rete dove “ci si prende e ci si lascia” in linea con il nuovo concetto di relazione generato da Facebook. Un concetto diluito rispetto alla realtà, mostrato anche da alcuni importanti studi internazionali, e che genera (ed è rappresentato da) statistiche preoccupanti come le ultime dell’ISTAT: in calo i matrimoni e quadruplicati i divorzi.
- In linea con il primo punto, assistiamo a una crescente “tinderizzazione” e “facebookizzazione” delle relazioni: amicizie per una giornata, un weekend, un’ora, spesso nate e defunte online, a volte senza impatto alcuni nella vita reale. Già nel 2013 l’impressionante (almeno, per me) film “Lei” aveva mostrato una tale dinamica proponendo la scena del protagonista Theodore Twombly intento in azioni di cyber sex con una sconosciuta, alla fine di una giornata di lavoro come le altre.
- Come già ben sottolineato da Francesca Di Cecio nell’articolo “Avocado mania: come le Instagram Stories hanno contribuito a diffondere i trend food del 2018” pubblicato su Food Service citando il report di Edelman “What’s on the Menu in 2018?”, in un’epoca sempre più social i piatti che mangiamo si sono trasformati. Non tanto nel sapore, quanto nel look: going beyond taste, vanno oltre il gusto. Si cura sempre più l’aspetto visuale del cibo, con una particolare attenzione a fare emergere la brillantezza dei colori – quelli di moda, come il Pantone 2019 Living Coral – e le consistenze degli ingredienti. Questo approccio permette di convincere gli utenti con più facilità della bontà di un piatto: oltre al gusto, è appagata anche l’esigenza sempre più urgente di condividere online le foto dei piatti scelti. Magari con il rischio che questi, alla fine, non lo mangino neppure e siano saziati solo dalla sua bella resa digitale. Una situazione, dice Giacomo Zaganelli su IL de Il Sole 24 Ore parlando del turista contemporaneo, che può generare una presenza fisica, e una contemporanea assenza mentale.
Il turista odierno è fisicamente presente, ma mentalmente assente; fa le corse per fotografare qualcosa, non sa bene la ragione per cui lo sta facendo, ma sa che deve farlo. L’azione è la condivisione, l’obiettivo il consenso. Il contrasto, quello vero, emerge tra l’effimerità del gesto e dei risultati (il post, i like) e la durabilità di dipinti ed edifici secolari. Si fotografa un monumento per gli altri, perché possa essere riconosciuto dagli altri, per dare testimonianza ad altri del proprio viaggio e della propria esperienza. Al Louvre tutti fotografano la Gioconda, agli Uffizi la Venere, al Reina Sofia (se potessero) Guernica, all’Accademia il David; perché all’Alte Pinakothek di Monaco nessuno fotografa il Compianto sul Cristo Morto di Botticelli? È sempre il Botticelli degli Uffizi, ma quel dipinto non ha alcun valore per le masse poiché non rappresenta un’icona.
- I motori di ricerca hanno modificato e stanno continuando a modificare profondamente la percezione della realtà in cui viviamo. Ho fatto un semplice esperimento: cercare su Google alcune delle parole più comuni e guardando i risultati della ricerca nelle immagini. Cosa ho trovato? A fianco della tradizionale iconografia che vede le immagini di Elfi, Fate e Bambole spuntare a seguito della ricerca digitale delle parole “Elfo”, “Fata” e “Bambola”, compaiono diversi contenuti legati alle serie Netflix, ad articoli fake prodotti per generare click, etc. Il lato oscuro della “portata” delle ricerche, controllabile solo dagli algoritmi (e forse, nemmeno più da questi). Contenuti che modificano il mondo visivo e archetipico che sta dietro a tali parole, e che non potranno che avere un forte impatto sulla costruzione del bagaglio di immaginazione delle nuove generazioni.
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- Oggi, si fa un gran parlare di social stories: Facebook, Instagram, Snapchat e chi più ne ha, più ne metta. Tutti a creare storie, a diventare (a detta degli stessi Facebook, Google, Twitter, …) creatori di storie. Ma di cosa parliamo, nella maggior parte dei casi? Di una sequenza più o meno piacevole di frammenti di contenuto digitale visual o testuale. Ma le Storie, sono tutt’altro. Il problema? Il passaggio dal sintattico al semantico, è brevissimo e va alla velocità del web. Quante volte ti è capitato di sentire colleghi e amici – generalmente più giovani – che esclamano: “bello, ci faccio una story!”. A me personalmente è successo, e ne ho scritto su un articolo per Ninja Marketing. Con tutta la buona volontà e l’innocenza che li contraddistingue, essi pensano davvero di essere nel bel mezzo della creazione di una storia. Ovvero, pensano di stare applicando le giuste regole e la sana dose di creatività e di follia indispensabili a tutti gli story creators. Il risultato dello sforzo? Basta guardare blogger e youtuber: qualche immagine e frammento video in sequenza, qualche tag scritto quà e là con colori e font casuali (“sta meglio questo o quello?”) et voilà, un contenuto del tutto identico a tanti altri della sua specie. Noi siamo cresciuti a pane e Storie – penso a Pinocchio, ma non solo: oggi è invece imperante un concetto di storia totalmente impoverito nella sostanza, e per di più della durata di pochi istanti.
- Non amo per niente Black Mirror. Ma ne riconosco qualche abbaglio illuminato e illuminante. Per esempio nella puntata Nosedive, articolata in un mondo dove le persone possono scambiarsi una valutazione fino a 5 stelline dopo ogni interazione, capace a sua volta di impattare sul loro status socio-economico. Coloro con più stelline possono permettersi hotel più belli, accesso a ristoranti di classe, un migliore welfare. Una chiara metafora dei limiti palesi della sharing economy, dove tutto è ormai una stellina, un rating, un commento, una valutazione e dove questi impattano con forza sul successo / l’insuccesso di bar, ristoranti, imprenditori, esseri umani. Il punto di non ritorno di tale scenario? L’ho percepito quando ho letto ormai alcuni mesi fa che la Cina darà un punteggio social ai propri cittadini entro il 2020. La gamification del reale è intorno a noi, e se è vero che la Cina – un mondo dove tutto è reso ludico – sta guidando il mondo e lo farà sempre più, non possiamo che diventarne consapevoli capendo come muoverci.
Dal virtuale, al reale. Andata, senza ritorno.
L’elenco proposto sopra è provvisorio: crescerà con il tempo.
Ecco cosa intendo quando sostengo che dopo i social – i social media e i social network così come li abbiamo conosciuti finora – ci sarà tutto.
Perché gli stessi social sono entrati saldamente nella nostra vita non solo (o meglio, non più solo) come strumenti e piattaforme, ma piuttosto a livello di forma mentis e logiche percettive del reale.
Non ci sono vie di uscita: siamo stati social-izzati. Almeno, fino alla prossima Rivoluzione (social).